Nelle settimane terribili della primavera del 2020, mentre i contagi da Covid-19 salivano in maniera drammatica, si evidenziavano tutte quelle componenti sociali ed economiche che avevano costituito il substrato utile al realizzarsi della pandemia, tanto importanti, da poter definire la diffusione del coronavirus come una vera e propria sindemia: una pandemia le cui cause sono strettamente correlate a motivazioni ambientali (inquinamento), alta densità della popolazione e delle comunicazioni, bassi redditi salariali e cattive condizioni sanitarie.
Nonostante l’Italia sia uno dei paesi che vengono considerati a welfare avanzato, da oltre un trentennio le politiche sanitarie ne hanno destrutturato la copertura sociale della salute pubblica fino ad arrivare ad avere quel quadro di risorse, in termini di ospedali, terapie intensive e soprattutto di personale sanitario, rivelatosi insufficiente per affrontare la prima ondata pandemica. I risultati si sono visti e da molti sono stati vissuti in maniera tragica.
A sottolineare questo c’è il particolare di come veniva evidenziata la drammatica (e cronica) carenza di personale nelle settimane di marzo e aprile, resa ancor più grave dal fatto che molti si ammalavano a loro volta riducendo le file dei professionisti, a fronte poi di una aumentata richiesta legata strettamente alle caratteristiche organizzative e di intervento imposte dalla pandemia stessa. In quei giorni, nei siti dei principali ordini professionali degli infermieri della Lombardia (OPI) molte erano le inserzioni alla ricerca di personale necessario – per ospedali e strutture residenziali in particolare. L’assunzione era diretta, con forme contrattuali ad personam funzionali allo scopo. Il reclutamento d’urgenza così impostato ha permesso di far fronte, nell’immediato, ad alcune criticità, rastrellando in particolare personale dalle altre regioni, specie quelle meridionali, non ancora investite dall’ondata pandemica. Nel maggio del 2020 il governo Conte 2 varava un decreto per l’assunzione straordinaria di poco meno di 10.000 infermieri di famiglia per tutto il territorio nazionale. Una pezza nei fatti, una goccia d’acqua nel mare, dato che fino alla fine dell’anno precedente lo stesso associazionismo degli infermieri parlava di una carenza di almeno 50.000 unità; almeno perché per altre fonti i numeri arrivavano fino a 100.000 o, addirittura, per rimanere al passo dei paesi meglio organizzati in termini di assistenza sanitaria (esempio su tutti: il Canada), 200.000.
A più di un anno, la situazione – sul fronte dell’organizzazione – non è pressoché migliorata. L’implementazione degli infermieri di famiglia ha permesso di aumentare un po’ le fila del personale in servizio; i giovani laureati, a differenza del recente passato, sono stati assunti pochi giorni dopo il conseguimento del titolo e i numeri dei posti disponibili al primo anno dei nuovi corsi di laurea sono stati leggermente aumentati; nella sostanza però nulla è cambiato rispetto al recente passato. Anzi, sul fronte contrattuale, delle garanzie salariali, della sicurezza del “posto fisso” o dei diritti, la situazione continua a seguire l’ondata liberista dominante: precariato, partite IVA, contratti a termine, ecc.
Quanto detto vale anche per quasi tutte le figure del sistema sanitario, con qualche piccola eccezione per i signori del vapore – i medici – quadri medio-alti da sempre tutelati da qualsiasi forma di organizzazione lavorativa, quanto meno di fronte ai loro subalterni. Non è un caso che a tal proposito, proprio in relazione alla nuova figura dell’infermiere di famiglia, gli stessi medici si chiedono che tipo di contratto questi avrà, non tanto perché si preoccupano di chi prende molto meno di loro, quanto per capire la capacità di controllo e manovra potenziale, sul piano organizzativo, che possono esercitare su quelli che già i più maligni dicono presentarsi in realtà più come una sorta di “infermiere del medico di famiglia”.
Anche in questo caso la situazione rischia di trascendere e restituire più una visione corporativa che non di classe. Nei fatti, l’infermiere di famiglia, già presente in molti paesi, sicuramente rappresenterà una soggettività lavorativa di sintesi delle principali forme contrattuali nel mondo della sanità e del lavoro in generale. Potrà essere un dipendente pubblico, di ruolo (o a tempo determinato) a carico del Distretto Sanitario di appartenenza, oppure essere un libero professionista, con tanto di partita IVA, con funzioni varie sul territorio, stretto però sempre fra i tempi di ingaggio e i ruoli e i compiti da assolvere. Potrà essere altresì alle dipendenze, in qualità di socio, di una delle tante cooperative appaltatrici di beni e servizi, con tutto quello che è già noto rispetto alla funzionalità del modello cooperativistico per l’economia capitalista e la fine di qualsiasi illusione sociale in merito.
Quanto detto fin qui non ha solo la finalità di far conoscere il mondo variegato della contrattualistica nella sanità e nel welfare in generale, quanto di offrire un dato analitico ulteriore in tema di diritti sindacali e ancor più di modelli lavorativi imperanti. Nel XVII secolo il medico, filosofo ed economista inglese William Petty affermava la necessità di organizzare gli ospedali in maniera tale da dare una risposta a 1.000 persone con una spesa inferiore di quella richiesta per 100. Non è dato sapere se le sue affermazioni fossero ispirate da visioni innovative, quelle che già si stavano sperimentando nei grandi opifici e nelle grandi manifatture, le quali avrebbero anticipato l’organizzazione industriale del lavoro, la quale a sua volta sarebbe poi evoluta nel modello fordista-taylorista e successivi. Di certo, la consapevolezza che l’ospedale sia la fabbrica della salute, la machine à guérir citata da Michel Foucault, viene ulteriormente sottolineata offrendo in tal modo una chiave di lettura rispetto alla dimensione dell’organizzazione del lavoro, alla finalità prettamente economica e corporativa dello stato sociale, alla fragilità del movimento operaio e di classe nel quadro descritto.
Un’immagine in tal senso, per comprendere meglio quanto scritto fin qui, può essere offerta dalla protesta delle hostess dell’Alitalia che si sono spogliate in piazza per sottolineare le scelte scellerate del governo e dell’azienda. Chi appartiene alla generazione dei babyboomer rimane stupito nel vedere una tale azione da parte di una figura professionale che, fino a pochi decenni passati, era considerata a un livello sociale di alto rilievo. Un’hostess non era – e non è – l’operaio della catena di montaggio o il rider che sfreccia per le vie della città, è però comunque una risorsa umana da spremere nel grande ingranaggio dell’economia capitalista che, in questi ultimi decenni, ha accelerato nella sua più selvaggia espressione liberista la dimensione dell’organizzazione del lavoro, restituendo un quadro sociale di insicurezza diffusa.
Le grandi ristrutturazioni delle fabbriche fordiste, che iniziavano già verso la fine degli anni ’70, hanno fatto da modello per la chiusura e la privatizzazione di ospedali e compagnie di bandiera. Delocalizzazione e smembramento, costruzione di filiali e strutture di corporate e machilladoras a ogni livello, per una fabbrica come per un ospedale. Chi vive in questo paese sa cosa significa, quando si ha bisogno di una prestazione sanitaria, muoversi nella miriade di servizi appaltati e privatizzati. Cercare di prenotare in tempo un esame senza subire l’onta di andare dal privato a pagamento non solo è difficile, ma è esclusivo solo di chi può permetterselo; per gli altri c’è solo un peggiorare progressivo delle condizioni di salute e di vita. I lavoratori poi hanno imparato a convivere fra “diversi”, senza leggerne la diversità stessa.
Colui che è tutelato da un contratto a tempo indeterminato non vede, non conosce, non riesce a leggere, o quanto meno non è abituato o men che meno interessato alle condizioni di precariato in cui versa il collega che gli sta accanto. Chi entra in ospedale al mattino presto, preoccupato dal turno pesante da fare, magari all’interno della tuta integrale contro il Covid, o dal fatto che mancano dei colleghi perché sospesi in quanto non vaccinati, passa accanto al janitor che sta pulendo corridoi infiniti. Forse lo saluta, molto spesso non lo vede e ad ogni modo non pensa a lui come a un compagno sfruttato al suo pari, assieme al quale dovrebbe costruire un fronte comune di lotta e rivendicazioni.
La solidarietà fra sfruttati è rimasta stritolata fra le righe delle liste di proscrizione delle aziende che assumono questo o quello e licenziano molti altri. I dipendenti dell’Alitalia in fase terminale, che si vedono costretti a inviare il curriculum ai nuovi (vecchi) vertici aziendali, mostrano uno storico, funzionale e mai scomparso metodo di dominio: la divisione, la guerra fra poveri, l’umiliazione e la sensazione di un precariato infinito e insuperabile. Ognuno pensa a sé, in termini liberali e individualisti, privo di coscienza di classe, speranzoso che il prossimo contratto sia a sua misura, migliore dei lacci e lacciuoli di quello in cui era costretto dal contratto collettivo nazionale di lavoro. Gli altri, restano a guardare, sperando di migliorare la loro condizione lungo l’unico pensiero dominante che è quello del mors tua, vita mea. Al termine il quadro attuale è talmente desolante che non può consentire rassegnazioni di sorta o illusioni manieristiche ma, al contrario, deve indurre a ragionare, collettivamente, su quali risorse mobilizzare per rilanciare l’obiettivo di sempre: la questione sociale.
Giordano Cotichelli